Sensi e controsensi dell’Ungheria

by Costantino Giannattasio

Un italiano che guida uno dei talenti più fulgidi del calcio europeo.
La lotta per i diritti, politica: ci sono alcune cose da sapere.

In Ungheria il calcio ha subito una sorta di damnatio memoriae. Quello che c’è stato tra l’oggi calcistico e il passato – potremmo definirlo “classico” – dell’epoca di Puskás non è mai accaduto. O meglio, gli ungheresi vorrebbero così. Nel mezzo secolo successivo alle imprese della “squadra d’oro”, sulle sponde del Danubio non c’è stato nient’altro che un grosso vuoto a forma di pallone. Dopo i picchi più alti, c’è sempre una fragorosa caduta. E il movimento calcistico ungherese ha impiegato oltre 50 anni per rialzarsi. Con il cuore rivolto al passato e gli occhi fissi sul presente, la Nazionale magiara sta ponendo fine a questo Medioevo.

Per comprendere quanto sia stato difficile ricostruire, è necessario avere un’idea di quanto fosse maestoso l’edificio che è crollato. L’Aranycsapat, la grande selezione ungherese che dominò il calcio europeo negli anni ’50, fu il frutto dell’unione tra una mente brillante, lo scrupoloso Gusztáv Sebes, e una squadra capace di assorbirne le idee rivoluzionarie. Il tecnico propose una versione più votata all’attacco dell’affermato “sistema” inglese: il WM si trasformò nella “doppia M”, un proto-3-4-1-2. Questa tattica, unita al talento individuale dei componenti della formazione, portò l’Ungheria – una piccola realtà europea – sul tetto del mondo, o quasi. Perché la “squadra d’oro”, che aveva collezionato grandi successi (medaglia d’oro alle Olimpiadi 1952, vittoria della Coppa Internazionale 1948-53) fu a un passo dal vincere i Mondiali del 1954.

Con un Puskás a mezzo servizio, l’Ungheria fu rimontata in finale dalla Germania Ovest dopo essere passata in vantaggio 2-0. Un risultato così inaspettato e prestigioso, che il match passò alla storia come il miracolo di Berna. Tornata in patria, la Nazionale non fu accolta nel migliore dei modi. Migliaia di persone scesero in piazza per protestare, il portiere Gyula Grosics venne addirittura arrestato: fu l’inizio della fine. L’Ungheria cercò di ripartire, ma le cose non andarono per il verso giusto. A dare il colpo di grazia lo scoppio della rivoluzione ungherese del 1956, che costrinse all’esilio alcuni degli eroi del vittorioso doppio confronto con l’imbattibile Inghilterra – tra il ’53 e il ’54, l’Ungheria vinse 6-3 a Wembley e 7-1 nella rivincita di Budapest. 

Se nei primi decenni dall’addio di Puskás al tricolore, nel 1956, la Nazionale ungherese riuscì a mantenere un livello medio-alto, a partire dagli anni ’80 i risultati andarono via via calando. I magiari mancano ai Mondiali dal 1986, mentre agli Europei sono tornati nel 2016, 44 anni dopo il quarto posto del 1972. In Francia, dunque, l’ultima e prestigiosa comparsa a livello internazionale di un Ungheria capace di superare da prima in classifica un girone ostico composto dall’Austria, gli storici rivali, la favola Islanda e il Portogallo, che quell’Europeo lo vincerà a Parigi contro i padroni di casa. Per i club, invece, non è andata meglio. Dall’istituzione del nuovo formato della Champions League l’Ungheria ha raggiunto solo 3 volte i gironi: una volta con il Debrecen (2009/10), due con il Ferencváros (1995/96 e 2020/21).

Il primo ministro Viktor Orbán, che guida ininterrottamente il Paese dal 2010, sta cercando di cristallizzare il suo potere anche attraverso il calcio. Il primo viaggio all’estero in qualità di premier fu nel 1998, all’inizio del suo primissimo mandato, in occasione della finale dei Mondiali a Parigi. C’è da dire, però, che la passione per il calcio è reale, e non soltanto frutto di scelte politiche demagogiche: lo stesso Orbán, da ragazzo, aveva giocato tra il 5° e il 4° livello della piramide calcistica ungherese. Una piramide con la cui sommità il primo ministro è riuscito a intessere legami profondissimi. Ben più della metà delle società che compongono la Nemzeti Bajnokság I (NB1), la Serie A ungherese, appartengono ad alleati del governo. Uno di questi club, la Puskás Academy – che, strano a dirsi, non è collegata al “Colonnello” – ha sede a Felcsút, paesino di 1600 abitanti in cui la famiglia di Orbán si è trasferita quando aveva 10 anni. Qui sorge quello che viene considerato il “Santuario dell’Orbanismo”: la Pancho Arena, una struttura che può ospitare fino a 3500 spettatori, più del doppio della popolazione della città in cui è collocato. Una cattedrale nel “deserto”, in cui il primo ministro incontra gli ospiti internazionali.

La costruzione della Pancho Arena è legata a una serie di investimenti di più ampio respiro che hanno coinvolto l’intero movimento. A partire dal 2010, infatti, Viktor Orbán ha destinato 1 miliardo di euro al calcio, soprattutto alle sue infrastrutture: quasi tutti i club della prima divisione adesso hanno stadi all’avanguardia. Ciononostante, quest’ultimi non riescono ad attirare un grande pubblico: 2.733 la media di supporters presenti sugli spalti in ogni match di campionato, poco meno della nostra Serie C, che nella stagione 2018/19 si fermava a 2.293. Lontano dagli antichi fasti, il campionato ungherese non piace neppure agli ungheresi.

Lo scorso 23 febbraio, Péter Gulácsi, portiere titolare del Lipsia e della Nazionale, nonché uno dei calciatori ungheresi più forti in circolazione, ha scatenato grandi polemiche in patria. Tramite un post su Instagram, l’estremo difensore ha affermato apertamente di sostenere le famiglie arcobaleno: «Ogni bambino ha il diritto di crescere in una famiglia felice, a prescindere dal genere, dal colore della pelle e dalla religione professata da chi la compone».

Dichiarazioni che, oltre a generare ondate d’odio sui suoi social, hanno destato lo scalpore di Zsolt Petry, allenatore dei portieri dell’Hertha Berlino. In un’intervista al quotidiano Magyar Nemzet, il cinquantaquattrenne ha dichiarato: «Non so cosa lo abbia spinto a stare dalla parte di omosessuali e transgender. Non capisco come l’Europa sia caduta in questo degrado morale». Se da una parte i media ungheresi hanno tentato di difendere a tutti costi Petry, dall’altra l’Hertha si è discostata dal comportamento del suo dipendente, arrivando a prendere una decisa presa di posizione: il licenziamento. 

Se la Nazionale ungherese è riuscita a qualificarsi agli EURO 2020 e a vincere, inaspettatamente, il difficile girone di Nations League in cui era stata inserita – con Turchia, Serbia e Russia – è anche grazie al lavoro di Marco Rossi: un ex calciatore tra Serie A e B che in panchina, in Italia, era arrivato al massimo ad allenare in Serie C. Poi la svolta, nel 2012, quando a chiamarlo è l’Honvéd, storico club ungherese che guiderà per 5 anni, fino al 2017, anno in cui vince la NB1. Dal 2018 è il c.t. della Nazionale.

Nonostante il sorteggio infausto – con Francia, Germania e Portogallo – proibisca di sognare, la stella Dominik Szoboszlai tenterà di trascinare l’Ungheria. L’obiettivo? Far riaccendere nel cuore del popolo magiaro la passione per il futball.

di Costantino Giannattasio