Vivere un sogno tra Mondiale e Champions League: l’intervista a Simone Pepe

by Giacomo Brunetti
pogba

di Giacomo Brunetti

«Ero seduto su un divanetto all’ingresso di Vinovo e vedo entrare un ragazzo. Era Paul Pogba, al suo primo giorno alla Juventus. Insieme a lui il direttore Paratici, che mi presenta: ‘Lui è Simone Pepe, è di Roma e gioca qui da 2 anni’. Paul mi guarda e fa: ‘A sghi!’. E io: ‘Ma come a sghi? Ma questo nun era francese?‘. Inizia a ridere: ‘A sghi, te sei de Roma e io allo United ero in squadra con Macheda, che è nato lì. E in campo mi chiamava sempre ‘A sghiii!‘».

Simone Pepe è di un’allegria contagiosa, e quando si definisce onesto nel raccontarmi le sue avventure calcistiche lo è fino in fondo. Che mi racconti dei compagni, oppure che apra il cuore parlando dei momenti più deludenti della sua carriera. Anche se si ritiene un privilegiato, perché quei momenti corrispondono a un Mondiale e a una finale di Champions League. Che, seppur avari di successi, rappresentano al tempo stesso il punto più alto della sua esperienza. Tutto condito dall’imperturbabile accento romano che rende ancor più autentiche le sue storie.

«I leader dicono poche parole, come Tevez a Berlino»

In un solo decennio la Juventus ha cambiato pelle tre volte. O per meglio dire, due e mezzo. Pepe arriva a Torino e la rivoluzione del 2011 è solamente un’idea. Sì, certo, c’è il nuovo stadio ormai in via di definizione, ma tutto ciò che sarà stravolto in ambito sportivo non è immaginabile. «La colpa fu data a Delneri, ma la verità è che arrivavamo per la maggior parte da squadre minori ed eravamo scommesse. Facemmo bene fino a novembre, poi scoppiammo».

La svolta, come detto, avviene quando Antonio Conte torna in bianconero da allenatore. E il giudizio di Pepe è estremamente chiaro: «È l’allenatore più bravo che ci sia, questa è la verità: ti dà una preparazione atletica come nessun altro. Ti chiede tanto, certo, ma quando vai in mezzo al campo sai a memoria cosa devi fare e, quando passano, agli avversari monti sopra. Davano per morto Pirlo, e invece era più vivo di prima. Presero Vidal e dopo quattro allenamenti disse: ‘Come facciamo a non far giocare questo?’. Dovette cambiare modulo».

Il background di Conte non era quello attuale. Era l’ennesima incognita per far ripartire la Juventus. Ma individuare la ricetta vincente sembra più facile del previsto: «Lui conosceva talmente bene l’ambiente per esserci stato da giocare che sapeva quali tasti toccare per tirare fuori il meglio da tutti». E poi c’è il rapporto tra Pepe e Conte, composto da rispetto e strigliate: «Mi rompeva in continuazione prima della partita: ‘Vai di là’, mi urlava. Io scherzavo sempre nel pre-gara. Sono fatto così. Ma tanti necessitavano anche di due ore per trovare la giusta concentrazione. Strillava a me, Pirlo e Buffon: ‘Andate nello stanzino se volete parlare o ridere’. Quelli avevano una serenità addosso… infatti Conte mi diceva: ‘Ricordati che questi hanno l’interruttore, lo accendono e fanno i fenomeni. Tu no!’. Aveva ragione, ma non ce la facevo. ‘Mister, se mi fai stare qui due ore a guardare per terra, quando entro in campo impazzisco’. Ridevamo tanto dentro a questo stanzino dietro alla vasca dell’acqua fredda».

Tanto bene in Italia – «Il discorso fondamentale di Conte fu quello che venne spiato dalle televisioni. C’erano i microfoni e si inca**o come una bestia. Che poi chissà, magari lo voleva far davvero sentire. Disse cose pesanti che ci diedero una convinzione maestosa» – quanto deludenti in Europa: «L’eliminazione con il Galatasaray fu surreale. Ero in Turchia, ma da infortunato. Provammo il giorno prima, ma niente. Dovevamo giocare perché c’erano i sorteggi a stretto giro. C’era un fango altissimo, non provai neanche a entrare sul terreno di gioco. Una forzatura che poteva andare bene, come male. Potevano segnare solo così. Quella non fu una partita: pensi ‘quanto manca da giocare? Speriamo che non accada niente’. Non si giocava a calcio».

«Dissi a Gigi: ma che davvero sono Messi e Iniesta?»

A metà dello scorso decennio la Juventus decide di cambiare e, tra mille polemiche e insoddisfazioni della piazza, in panchina subentra Massimiliano Allegri.

«La bravura della Juventus è stata scegliere Allegri dopo Conte. Il secondo ci aveva chiesto tanto a livello mentale e fisico, il primo portò leggerezza. Questo è stato il passaggio fondamentale. Per noi era tutto diverso, eravamo abituata ad andare a 300 all’ora. Ci allenavamo bene, e il motore era già oliato. Un insieme di tante cose lo ha portato a essere la giusta continuazione, seppur in modo differente».

I risultati migliorano, tanto che nel 2015 arriva la finale di Champions League. «Il giorno prima il Barcellona fece la rifinitura dalle 18 alle 19, e noi dalle 19 alle 20. Quando entrammo all’Olympiastadion loro erano ancora in campo. Salendo le scalette vidi arrivare Iniesta e Messi. Io ero con Buffon e Bonucci. Esclamai: ‘Ma che dai, mica son loro! Era piccolini, Iniesta bianco pallido… pensavo fosse un fotomontaggio’. Dissi a Gigi: ‘Ma davvero?’. E lui: ‘Eh, mo’ te lo fanno vedere loro se davvero davvero‘».

Quello spogliatoio era pieno di campioni. E di uomini. Pepe spende parole superbe per ogni compagno, e ricorda: «Tevez parlava poco, il discorso prima di Berlino mi è rimasto impresso: ‘Tanti giocatori sognano di essere nell’altro spogliatoio, ma io sono orgoglioso di far parte di questo. Vamos a ganar’. Non aveva bisogno di tante parole. Lui come Vidal. Dentro lo spogliatoio non parlavano da leader, ma dentro al campo di trascinavano. Ed erano così anche Buffon e Pirlo».

A proposito di Buffon: fu lui a salvare la Juventus in diverse occasioni, ma non bastò. «Il post-partita della finale di Champions fu una roba che ti distrugge. Sull’1-1 la rimettiamo in piedi dopo tre parate strepitose di Buffon, e ci crediamo. Chissà se quel mezzo fallo da rigore su Pogba… Siamo stati bravi nonostante fossero più forti a restare in gara».

«Non ho mai sentito un silenzio così assordante»

Una delusione a 5 anni di distanza dall’altro grande palcoscenico della carriera di Simone: il Mondiale del 2010.

«Rischiai di andare anche a Euro 2008. C’era Camoranesi nella fase finale della carriera e Donadoni mi allertò: ‘Ti osservo’. Ma tra me e Camoranesi non c’era paragone. Quello che gli ho visto fare, l’ho visto fare a pochi. Se stava bene Mauro, io al massimo potevo andare a fare il tifo all’Europeo (ride, ndr)».

Occasione rimandata, però, alla rassegna iridata. Che segnò il punto più basso della Nazionale italiana, secondo solo al tracollo del 2018: «Al Mondiale mi sono mangiato un gol all’ultimo contro la Slovacchia, è vero. Ma a livello personale non feci un brutto Mondiale: contro il Paraguay feci una buona partita, contro la Nuova Zelanda non so perché venni sostituito all’intervallo».

Momenti particolari che anche il tuo corpo riesce a identificare: «Sono sempre stato uno che scherzava prima della partita. Ero così di carattere. La prima e unica volta che ho sentito la pressione prima della gara è stato l’esordio al Mondiale contro il Paraguay. Entrai e dissi: ‘Ca**o, qui si fa sul serio’. E poi ricordo il silenzio assoluto dopo l’eliminazione. Venti minuti di niente. Non c’è stato nervosismo, ma in quel lasso di tempo ci fu un silenzio totale. Chi seduto, chi dentro ai bagni: un momento di sconforto clamoroso. Non si è mosso nessuno».

«Di Natale non era tecnicamente inferiore a nessuno dei grandi»

Studiando per l’intervista a Simone Pepe mi sono accorto di una sua dichiarazione che accomuna i luoghi comuni di tanti bambini. Gli chiedo se è vero, con un sorriso sulle labbra, e lui risponde in modo affermativo: «Sognavo di fare il benzinaio. Passavo insieme ai miei genitori e vedevo il loro portafogli sempre pieno di soldi. Guardavo la mazzetta di banconote e dicevo: ‘Questi sono ricchi’. Poi mi hanno spiegato che non è così».

La rincorsa alla carriera parte da Roma, dove «ero in squadra con De Rossi, Aquilani, D’Agostino, Bovo, Amelia… ma io andai in C. Pradè mi disse: ‘Vai a Teramo’, ma io ero scettico. E invece fu un’esperienza fantastica: inizialmente non giocavo, poi ho segnato 12 gol».

La consacrazione arriva a Udine. Viene scambiato con Di Michele e lo spazio è davvero esiguo. «Mi trovai davanti: Quagliarella, Floro Flores, Paolucci reduce da 6 reti ad Ascoli in Serie A, Di Natale e Gyan Asamoah. Feci il ritiro e parlando con mister Marino, che è stato fondamentale nella mia carriera, mi dissi: ‘Simone, qui rischi di non trovare spazio’. Ma io sono testardo e orgoglioso, non avrei mollato quel posto per nessuna ragione al mondo. Ragionai e risposi: ‘Ormai è passato un mese di ritiro, mi sono trovato bene con tutti, se io continuo ad allenarmi bene posso ritagliarmi un ruolo?’. Fu nuovamente sincero: ‘Per me puoi rimanere, certo, ma rischi di non giocare mai’. Andai contro anche al mio procuratore, ma scelsi di lottare a Udine. Il fatto che volevano mandarmi via mi dava alla testa».

La sua caparbietà sbocciò insieme all’ostinatezza. «Zero minuti nelle prime giornate, faccio un assist da esterno di destra a Di Natale in Coppa Italia. Io avevo sempre giocato a sinistra, abituato a rientrare. Iniziai a entrare tre minuti, sette minuti e così via. Ma ogni volta che entravo come un disperato: rincorrevo tutto, mi ricordo proprio questa cosa. Rincorrevo la gente come i matti. Arriviamo a Firenze alla decima giornata, Floro Flores voleva giocare centrale e lo stesso Quagliarella. Complice qualche infortunio, prima della partita mi si avvicina il mister e mi fa: ‘Adesso voglio vedere quanta polvere da sparo hai’. E io lo provoco: ‘E tu prova, poi vedemo’. Non era una mancanza di rispetto, ma un modo per dirgli: ‘Sono pronto’. Feci due assist, espellere Pasqual e vincemmo 1-2. Da lì trovai la mia collocazione».

Ah, Di Natale. Tra gesta da campione e una telefonata alcuni anni dopo: «La differenza è che lui è sempre rimasto a Udine, ma non era secondo a Del Piero o altri dal punto di vista tecnico. Se ti prendi un’ora di tempo e guardi i suoi gol… capisci che non sto scherzando. Il gol alla Reggina che ha fatto a Campagnolo… Quando andai alla Juventus, l’anno dopo Paratici mi chiese: ‘Ma secondo te Totò ci viene qui?’. Gli feci uno squillo, ma mi rispose che aveva fatto una scelta di vita rimanendo a Udine. Ha preferito essere unico in quella squadra piuttosto che uno dei tanti in quella squadra».

Senza dimenticare di Alexis Sanchez e Samir Handanovic, oggi ancora insieme: «Sanchez era un torellino, arrivò come bambino. La cultura sudamericana è diversa dalla nostra, anche durante l’allenamento sembra che vogliano prenderti in giro. Ma è il loro modo di essere, anche Vidal era così. Ma anche Pereyra, Tevez e gli altri. Alexis faceva 6 o 7 doppi passi a dribbling, Pasquale gli tirava certi calcioni in allenamento. Ti saltava e ti aspettava, era di un altro livello. Voleva il numero 7, me lo chiese. Gli risposi: ‘Ale’, ma sgomma vai’. E infatti lo ha preso quando sono andato via. Ha cambiato passo quando dal pensare alla bellezza del gesto passò alla fase concreta. Samir… un ragazzo di una serietà devastante. Preciso, permaloso da morire! E un portiere strepitoso: faceva delle uscite basse che cappottava la gente. Io ho sempre fatto scherzi, ma a lui no: era alto 2 metri!».

«Mi sarebbe piaciuto gestire Chiellini e Vidal»

Oggi Pepe fa il procuratore. I suoi compagni, appena lo hanno saputo, gli hanno subito scritto. E naturalmente lo hanno preso in giro, dopo che per anni era stato il contrario. «Ho giocato insieme a molti calciatori straordinari. Il più facile da gestire sarebbe Chiellini: devi far ben poco, si guida da solo. Mi sarebbe piaciuto gestire Vidal, un ragazzo più focoso ma altrettanto strepitoso».

Infine due compagni che, con destini diversi, hanno cambiato il proprio corso: «Elia aveva fatto la finale Mondiale. Mi riguardavo ieri Spagna-Olanda, scese in campo. Ad Amburgo fece benissimo, era strepitoso, alla Juventus invece è durato come un gattino sull’Aurelia! Barzagli arrivò per 300mila euro, ci avevo giocato a Palermo ed era forte. In Germania aveva vinto il campionato con Dzeko e Grafite. Dopo due annate a vuoto fece bene per 6 mesi con Delneri. Con Conte fu una roba pazzesca, da lì in poi sovvertì ogni logica».

Una chiacchierata con Simone Pepe è uno spasso. Perché ti racconta tutto senza nascondersi, come ha fatto con noi.