La Steaua Bucarest dell’86: tra il regime e la Coppa dei Campioni

by Costantino Giannattasio
Steaua Bucarest

di Costantino Giannattasio

Nella seconda metà del secolo scorso, guerre intestine e totalitarismi inattaccabili hanno sconquassato l’Est-Europa. Chi più, chi meno, tutti i popoli che stanziati al di là dei Balcani hanno conosciuto fame povertà. Se il versante Occidentale del vecchio continente si stava riprendendo dai postumi del secondo conflitto mondiale, quello orientale stava sprofondando in una crisi nerissima.

In Romania imperversava la follia di Nicolae Ceaușescu. Partito da una famiglia di umili contadini, era riuscito a imporsi sulla scena politica nazionale, arrivando ad autoproclamarsi Presidente della Repubblica nel 1974. Il ‘Genio dei Carpazi’ – come amava farsi chiamare – aveva instaurato un potere dittatoriale di matrice comunista, basato sul culto della persona e sulla totale incontrovertibilità delle sue decisioni. La Romania, dunque, fu immune dal processo di parziale apertura che caratterizzò il blocco sovietico a partire dagli anni Cinquanta e rimase fino alla fine un regime oppressivo. Lo testimoniano alcuni dei provvedimenti attuati all’epoca: una tassazione tra il 10 e il 20% sul reddito per chi non avesse ancora procreato entro i 25 anni, che comportò una crescita demografica smisurata, oltre che l’abbandono di un numero incalcolabile di bambini negli orfanotrofi; ma anche il razionamento del cibo, stabilito per sopperire alla grave situazione economica, che fu fatto passare per una «mossa per combattere l’obesità».

In un contesto simile, fare calcio non deve esser stato cosa facile. In quel periodo così buio, privo del ben che minimo spiraglio per la libertà e la soddisfazione personale, una squadra di calcio rumena riuscì a salire sul tetto d’Europa, alzando al cielo la Coppa dei Campioni. Stiamo parlando della Steaua Bucarest, che nel 1986 sconfisse il temibilissimo Barcellona di Schuster. Una vittoria che, forse, riaccese un barlume di speranza nei cuori di un popolo ormai straziato dalla brutalità della dittatura – che terminò tre anni dopo quel trofeo, nel 1989, a seguito delle agitazioni popolari che costrinsero alla fuga Ceaușescu e consorte, raggiunti e assassinati alle 16:00 del giorno di Natale da un plotone militare.

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Il club dei Militarii

Nel 1947 l’esercito rumeno costrinse l’FC Carmen Bucarest alla liquidazione forzata. Dalle ceneri di quel club nacque l’Asociația Sportivă a Armatei (‘Associazione Sportiva dell’Esercito’), una polisportiva legata ad alcuni ufficiali della Casa Reale di Romania. Dopo aver cambiato denominazione diverse volte ed essersi imposta in patria nel primo decennio di vita, soltanto nel 1961 le venne assegnato il nome “Steaua”. Il termine, che in rumeno vuol dire “stella”, venne applicato in voga a quella diffusa tradizione di inserire una stella nel nome o nel logo delle squadre strettamente collegate al Ministero della Difesa.

Tra gli anni ’60 e ’70, i roșu-albaștrii si confermarono come esponenti di spicco del calcio rumeno, ottenendo svariati successi soprattutto nei tornei nazionali: una serie di trionfi che valse loro il soprannome di ‘specialisti delle coppe’. Agli inizi degli anni Ottanta, la società affrontò un difficile situazione finanziaria, causata dall’improvvisa mancanza di fondi statali e dal lavoro non impeccabile di una dirigenza che “vantava” tra le sue file il figlio adottivo del dittatore Ceaușescu, Valentin. Tuttavia, la Steaua riuscì a rialzarsi a stretto giro, gettando le basi per un florido futuro a tinte continentali.

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Il cammino verso l’Andalusia

Per quanto fosse certamente una squadra di buon livello, nessuno all’epoca avrebbe mai pronosticato la Steaua campione d’Europa. Certo, il cammino che portò i campioni in carica di Romania a giocarsi la finale di Siviglia fu oltremodo agevole: nei primi due turni i Viteziștii (i ‘Velocisti’) si imposero con nonchalanche sui danesi del Vejle Boldklub e gli ungheresi dell’Honvéd. A creare non pochi grattacapi fu, invece, il Kuusysi Lahti, dimenticabilissima compagine finlandese, che ai quarti di finale rischiò di avere addirittura la meglio.

In semifinale, il tabellone, sino a quel momento particolarmente benevolo, pose l’Anderlecht sul cammino dei rumeni: i bianco-malva, considerati tra i favoriti per la vittoria finale, erano nel pieno del momento più alto della storia del calcio belga. La Steaua Bucarest, però, riuscì a strappare un biglietto per la finale di Siviglia grazie al perentorio 3-0 della sfida di ritorno, dopo la sconfitta rimediata nel match di andata (0-1)

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La notte dei miracoli

Intanto, in Romania il regime continuava a mietere vittime e porre strani divieti. Ceaușescu, infatti, impedì ai tifosi della Steaua – ormai la squadra con il più ampio bacino di supporters di tutto il paese – di seguire i propri beniamini in Spagna. Soltanto in mille poterono raggiungere la sede della finale. Indovinate chi: militari e dirigenti del governo. La squadra avversaria, il Barcellona, invece, poté contare sul sostegno di quasi 70 mila anime, accorse allo stadio Ramón Sánchez Pizjuán di Siviglia per assistere a un’agevole – quantomeno sulla carta – vittoria degli azulgrana.

Ma i pronostici, d’altronde, sono fatti per essere ribaltati. Ne era consapevole Emerich Jenei, l’allenatore rumeno capace di dar vita a quella straordinaria cavalcata. La Steaua non brillava per la qualità del gioco offerta, tutt’altro. I roșu-albaștrii avevano improntato la propria strategia su un asfissiante ostruzionismo, finalizzato a colpire in contropiede una squadra a forte trazione offensiva. In quella notte del 7 maggio 1986, Jenei tenne fede ai propri dogmi tattici, riuscendo a trascinare – grazie al chirurgico lavoro della retroguardia guidata da Bumbescu e Belodedici – la partita sino ai calci di rigore. Un risultato, questo, già ben oltre le aspettative.

A prescindere dalle qualità messe in campo, quando una partita si prolunga sino alla lotteria dei rigori, ci si può davvero aspettare di tutto. E così fu. Quella notte nacque un mito, quello di Helmuth Duckadam, il portiere della Steaua Bucarest che fu capace di neutralizzare i quattro rigori che furono calciati verso la sua porta: un caso più unico che raro nella storia della Coppa dei Campioni. Dall’altra parte, i tiratori scelti da Jenei fallirono solo due delle quattro conclusioni. Nello stupore più totale del pubblico presente al Pizjuán, la Steaua era diventata a sorpresa campione d’Europa.

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Le ali di Helmuth

Il protagonista indiscusso della serata, il baffuto Helmuth Duckadam, riscosse un clamoroso successo tanto in patria quanto all’estero. Così titolava la prima pagina del Corriere dello Sport, all’indomani della straordinaria impresa conclusa a Siviglia: «Superman è rumeno». Rientrato in Romania da idolo indiscusso (fu soprannominato ‘Eroul de la Sevilla‘, eroe di Siviglia), fu eletto ‘Calciatore rumeno dell’anno’ e si posizionò 8° al Pallone d’Oro 1986 (vinto dall’ucraino Igor Belanov). Diversi club si fecero avanti per assicurarsi le sue prestazioni, tra cui il Manchester United. Eppure, nello stesso anno la sua carriera di fatto terminò.

Secondo la ricostruzione ufficiale, il ventisettene Duckadam fu colpito da un’improvvisa trombosi al braccio destro, che gli impedì di proseguire la sua carriera ad alti livelli. Fonti alternative, invece, sostengono che il portierone avesse attirato su di sé l’astio di Valentin Ceaușescu, figlio del dittatore nonché grande tifoso-dirigente della Steaua. Quest’ultimo avrebbe ordito una spedizione punitiva per vendicarsi di un diverbio nato fra i due nella notte della vittoria. Un facoltoso tifoso del Real Madrid aveva regalato al protagonista del match una Mercedes, per ringraziarlo della sconfitta inferta agli acerrimi nemici del Barcellona. Valentin, invidioso degli attestati di stima ricevuti dal calciatore di Semlac, riteneva che quell’auto gli spettasse di diritto. La fiera opposizione di Duckadam gli valse, a quanto pare, la vendetta dell’inquilino di casa Ceaușescu.

Dopo essere ritornato a casa sua, fra i pali, alcuni anni dopo l’incidente (nel 1991), a causa dell’insopportabile dolore preferì appendere le scarpette e i guantoni al chiodo. All’uomo che aveva condotto la Steaua Bucarest e l’intera Romania sul tetto d’Europa – forse – erano state tarpate le ali. Non c’era spazio per sogni e grandi gesta. La Romania doveva tornare nuovamente nella baratro in cui Ceaușescu l’aveva gettata.

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